mercoledì 15 ottobre 2014

SOL, SERRAVALLE-AUSCHWITZ E RITORNO


La figlia Galia accompagna Sol
La figlia Galia accompagna Sol
Dopo l'incontro con Sol Cittone, sopravvissuta ad Auschwitz dopo essere stata arrestata nel mio comune, Serravalle Pistoiese, dentro di me si sono mescolati diversi sentimenti. Tante volte ho sentito raccontare storie sull'olocausto, tante trasmissioni ho avuto modo di seguire, ho visto con i miei occhi Auschwitz ma mai avevo parlato, stretto la mano e abbracciato qualcuno dei pochi che ebbero la fortuna di sopravvivere. Quando avviene qualcosa del genere è difficile riuscire a raccontarlo a chi non era presente. Sono sincero, non ci sarei riuscito. Per fortuna, il mio vecchio professore, Edoardo Bianchini, che insieme a Roberto Daghini è riuscito a rintracciare Sol Cittone, ha saputo spiegare, molto meglio di come avrei potuto fare io, quelle sensazioni che ti restano appiccicate addosso dopo un incontro tanto fuori dal comune. Per questo non trovo di meglio che pubblicare l'articolo uscito sul sito Linee Future (Sol sopravvissuta all'inferno) che, spero, possa interessarvi.


Proviamo a chiederle se di quei giorni bui e interminabili abbia qualche bel ricordo.
Ci pensa, Sol Cittone Miralles, giunta nel pomeriggio a Serravalle Pistoiese per ricordare e soprattutto far ricordare le persecuzioni antisemite operate dai fascisti e dai nazisti nel periodo della seconda guerra mondiale. Ci pensa bene, ma del campo di concentramento di Auschwitz, dove arrivò quindicenne, e degli altri lager dove purtroppo è stata ma da dove è miracolosamente riuscita a ritornare viva, anche se da sola e con nessuno dei sette componenti della sua famiglia, non riesce a ricordare davvero nulla, nulla che la faccia sorridere.
“I ricordi sono solo sofferenza – dice Sol in un italiano impacciato, ma comprensibilissimo, con qualche divagazione livornese, città dove è cresciuta, dopo essere nata ad Instanbul 85 anni fa –. Ci picchiavano continuamente, dalla mattina alla sera. E ci facevano mangiare poco, pochissimo. Ricordo quando ero su un carro a dividere e sbucciare patate: uno delle SS si avvicinò e mi cominciò a schiaffeggiare. Gli dissi di smettere e lui, dopo aver provato a tapparmi la bocca con le mani, mi sferrò un calcio in un gamba con quegli stivaloni invernali che avevano. Iniziai a sanguinare. Lui, a ridere”.
Ad accoglierla, oggi pomeriggio, davanti al Comune di Serravalle, un piccolo stuolo di persone, formato dal Sindaco e soprattutto da giornalisti. Curiosi non ce ne sono, nonostante il paese, a questo evento, sembrasse tenerci particolarmente. Sirio e Imperia, però, coetanei di Sol, non sono voluti mancare.
“Ho fatto con Sol la quinta elementare – racconta e ricorda Sirio Balleri, che di Serravalle è un’istituzione: ex assessore, ma soprattutto, fonte storica e bibliografica del paese –. Le aule erano all’ultimo piano del caseggiato dove abitava lei, quando arrivò qui come sfollata”.
Anche Imperia Leporatti la ricorda benissimo. E appena arrivata, l’abbraccia e la bacia, con gli occhi lucidi.
Nonostante l’età, il dolore che le ha trapassato indelebilmente la vita, Sol Cittone è un vulcano in piena. Nelle sue parole, nel timbro della sua voce e soprattutto nei suoi occhi però, non c’è rabbia, né voglia di vendetta.
Sirio Balleri e Imperia Leporatti, compagni di scuola di Sol
Sirio Balleri e Imperia Leporatti, compagni di scuola di Sol
Risponde a tutti quelli che le chiedono qualcosa, con la cortesia che l’interlocutore le ricordi a che punto è arrivata con il racconto. La memoria, ogni tanto, inizia a tradirla: con i nomi delle persone e delle città, con le date, con i numeri. Dell’olocausto però, ricorda tutto, perfettamente.
“Passammo cinque giorni in treno – continua Sol –. Ci portarono alla stazione dopo averci rinchiuso, come ebrei, nel carcere di Pistoia e in quello di Firenze (Le Murate – n.d.r.). A Pistoia fu il maresciallo Luigi Cellai ad interrogarci e a portarci in galera. In Germania arrivammo a mezzanotte. I tedeschi che ci pressarono sui vagoni ci dissero che se qualcuno, durante il viaggio, fosse scappato, gli altri avrebbero pagato al loro posto, con la fucilazione”.
“Passavano i giorni, nel campo di concentramento, e poco alla volta, noi donne, diminuivamo. Non sapevo dove venissero portate quelle che stavano con me, nelle stanze e che improvvisamente, sparivano. Una mattina capii perfettamente dove andassero le mie amiche del Lager: stavo malissimo e lo dissi alla Kapo, una tedesca che ci trattava malissimo. Mi misurò la febbre: avevo al temperatura a 40. Mi portò in un altro stanzone, dove c’erano un sacco di altre donne in fila, tutte malandate come me. Ero stata portata alle camere a gas. Arrivò un ufficiale: era il dottor Mengele. Mi chiese come stessi e io, nonostante tremassi come una foglia, gli risposi che stavo bene. Fu la mia salvezza: ero ancora utilizzabile, potevo servire ancora a qualcosa, non ero da gettare. Mi rispedì in un altro stanzone, dove per giorni e giorni lavorai per confezionare munizioni: polvere da sparo incapsulata in piccoli astucci d’acciaio. Erano le pallottole”.
Ognuno, tra i colleghi presenti, è curioso di sapere, notes alla mano, qualcosa di particolare. Sol, risponde a tutti, guardando ognuno negli occhi. La figlia, Galia, che la ha accompagnata da Haifa, dove vivono, le porta un bicchiere d’acqua. Da quando è scesa dalla macchina che la ha accompagnata, non ha ancora smesso di parlare un solo attimo.
“Ci marchiarono per contarci – dice Sol, scoprendosi l’avambraccio –. 75671, questo era il mio numero”. È sbiadito, quel tatuaggio, ma è ancora leggibilissimo.
La pioggia, battente, ha dato un po’ di tregua. Il Sindaco e un paio di assessori presenti alla cerimonia desiderano portare Sol a farle rivedere la casa dove trascorse un po’ di tempo prima di essere deportata.
Sol mostra il suo numero tatuato sul braccio
Sol mostra il suo numero tatuato sul braccio
Sol si incammina, ma le dicono che la visita la faranno in macchina.
A camminare è abituata, Sol. Quando i tedeschi cominciarono a fiutare l’odore della sconfitta, tutti i deportati sopravvissuti alle camere a gas e ai forni crematori furono sottoposti alle marce della morte.
“Camminammo – racconta ancora –, interrompendo la marcia solo per riprendere fiato, per 4 giorni consecutivamente. Molti, durante l’ultima tortura, morirono per strada. Io e una ragazza, di cui non ricordo il nome, riuscimmo a sopravvivere, grazie anche ad una scatola di sardine. Un ufficiale tedesco ci dette anche una baguette. Poi, dopo un po’, arrivammo nei paraggi di un ospedale e lì incrociammo le truppe sovietiche. L’incubo era finito”.
Sono passati quasi settant’anni, da allora. Sol Cittone Miralles è ancora viva ed ha ancora la forza per ricordare e raccontare.
Bisognerebbe ascoltarla bene, Sol. Soprattutto noi che non abbiamo visto e che certe atrocità non possiamo neanche riuscire a immaginarle.
Luigi Scardigli

CON IL SOLE CHE FA CAPOLINO

Galia, Edoardo Bianchini, Sol Cittone e Dana Biro a Villa Parri
Galia, Edoardo Bianchini, Sol Cittone e Dana Biro a Villa Parri
LA MAGGIOR PARTE della nostra vita passa in mezzo a giorni grevi e lentissimi.
A volte, però, improvvisamente il cielo si apre e dalle nuvole esce il sole, come a me è capitato oggi che ho conosciuto personalmente una donna sopravvissuta ad Auschwitz: Sol Cittone.
Con la mia cara allieva Dana Biro, la giovane israeliana che è riuscita a rintracciare Sol ad Haifa, siamo saliti a Villa Parri, a Pistoia, e mentre il cielo si apriva davvero e il sole spuntava, ci siamo trovati a tu per tu, a parlare – in tre lingue: italiano, ebraico e inglese – con quella Sol che, settanta anni fa, fu arrestata con i suoi, scaraventata per quattro giorni in prigione a Pistoia e poi trascinata a Firenze e a Fossoli e da lì, in  cinque giorni indicibili di viaggio, fatta scendere ad Auschwitz.
Ad Auschwitz sono stato cinque volte. Sempre commosso e spaventato da quello che gli uomini sono capaci di fare agli uomini. Ma l’incontro diretto con Sol, con quella bimba di 15 anni che fu strappata da qua e gettata nell’inferno dell’anus mundi, come diceva Primo Levi, mi ha colpito oltre ogni umano pensare.
Vedere è sempre un’emozione che non ha uguali. Vedere e ascoltare lo è ancor di più.
Sol mi parlava e mi raccontava la sua storia per frammenti. Poi mi ha fatto vedere il numero sul suo braccio. Ed è molto diverso che vederlo in televisione o in un filmato.
Con la mia allieva Dana e con le persone della famiglia di Sol, per prima Galia, la figlia straordinariamente energica e vitale, oggi abbiamo condiviso un’esperienza di vita di quelle che alleggeriscono l’esistenza anche se attraverso il dolore: un dolore che non può essere percepito tutto, interamente, come fu, ma che, sublimato dalla distanza del tempo e dalla serenità di Sol, rende improvvisamente saggi, alleggerisce la nostra grevità di poveri esseri pieni di superbia, e ci lascia dentro solo una voglia di piangere che sa di grandezza e di disperazione, di tragedia e di gioia.
La gioia di aver toccato un testimone e di poterne conservare e trasmettere la memoria.
Edoardo Bianchini

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