venerdì 29 marzo 2013

BUONA PASQUA


domenica 24 marzo 2013

LA FORZA DEI GESTI


Abbiamo vissuto una pagina di storia nel vedere due Papi, uno accanto all'altro.
Francesco e Benedetto XVI si sono incontrati, si sono abbracciati, hanno pregato insieme.
Non è la prima volta, anche se è molto raro, che nella storia succede di vedere due Papi.
Ma la novità vera sta nel fatto che, mentre nel passato si facevano guerra o comunque vivevano in assoluta separatezza, i due Papi di oggi, quello regnante e quello emerito, si sono inginocchiati insieme davanti all'immagine della Madonna per pregare.

Oltre alla eccezionalità dell'evento c'è anche da registrare la straordinarietà del gesto che Papa Francesco fa quando rinuncia all'inginocchiatoio di onore per pregare gomito a gomito con il suo predecessore.

A lui sarebbe toccato, secondo il cerimoniale, l'inginocchiatoio più vicino all'altare ma quando vede Benedetto XVI dirigersi verso il proprio posto non esita un istante a raggiungerlo.

Un gesto che vale più di qualunque discorso.

giovedì 14 marzo 2013

IL SEGNO E LA GIOIA


Francesco. Ha un volto e un nome il nostro Papa. 

Jorge Mario Bergoglio, piemontese d’Argentina, pastore dolce e for­te nel continente più cattolico sulla faccia della Terra, nella realtà toccata nel profondo e da secoli dal Vangelo di Cristo e più ricca di contraddizioni e di spe­ranza. Papa Francesco. Venuto a Roma, «mi hanno preso» ha sus­surrato con il suo dolce accento – e in spagnolo preso significa an­che «portato in vincoli», carcera­to, proprio come Pietro – «dalla fine del mondo».

Papa France­sco. Primo del suo nome, il no­me del santo più amato. Primo non europeo. Primo tratto dalla famiglia religiosa dei gesuiti.

Primo a chiedere al suo popolo di pregare Dio per lui, prima di benedire da Vescovo e Padre il suo popolo. Primo a pregare e far pregare come atto inaugurale del pontificato per il suo predeces­sore che lo stava ascoltando: il «vescovo emerito di Roma» – co­me lo ha chiamato – Benedetto XVI.

Papa Francesco. Chiamato a Ro­ma, alla guida della Chiesa ma­dre e maestra, e a «presiedere nella carità» la Chiesa universa­le. Papa Francesco.

E quel nome l’abbiamo già sulle labbra e nel cuore. Con gioia, comprendendo il segno. Con la stessa felice consapevolezza con la quale tanti noi riuniti in piazza San Pietro, ieri sera, alle 19.06, mentre la fumata bianca riempiva il cielo sopra la Cappella Sistina, hanno anticipato nell’antica lingua di Roma e della Chiesa cattolica l’annuncio atteso: «Habemus Papam!».

L’attesa del Papa è stata breve, così come il distacco è stato lungo in questa rivoluzionaria e, infine, dolcissima successione sul soglio di Pietro. La scossa impressa alla Chiesa e al mondo (a questo nostro mondo che poco e nulla sembra ormai sapere del senso del limite) dalla scelta di Benedetto XVI ci ha ricordato con forza inaspettata che tutto è nelle mani del Signore e che chi lo ama di amore fedele è capace di tutto. Anche di una suprema e umile rinuncia. E della suprema e umile accettazione. In continuità semplice, comprensibile davvero a tutti, bellissima, rincuorante.

Questo tempo straordinario, con straordinarie voci di uomini di Dio e con le loro straordinarie scelte impreviste e imprevedibili per gli 'esperti', ci ha ricordato, e dimostrato che le categorie dominanti una certa modernità stentano davvero a narrare e a contenere un evento come quello cristiano, sempre sorprendente e in grado di rovesciare schemi e presunzioni. Anche questa rapidissima elezione del «servo dei servi di Dio», del nuovo romano Pontefice, è stata veramente altro – e si è posta infinitamente più in alto – rispetto ai fatti delle cronache consuete e alle consuete cronache che le erano state dedicate e che debolezze e miserie di alcuni 'servi infedeli' avevano alimentato. Lo scandalo della Chiesa è questo, è questa la sua scandalosa verità che rompe muri e apre speranze, della quale dobbiamo essere degni. Anche nello sguardo. Stretti, con fiducia e amore di figli, a Papa Francesco. ​

Marco Tarquinio - Avvenire, 14/03/2013

sabato 9 marzo 2013

CONTI SBAGLIATI

Che Grillo non abbia dimestichezza con la matematica o, per lo meno, che non conosca in modo approfondito le cose di cui parla è ormai noto ai più. 
Qualcuno gli crede in buona fede, altri sanno bene che sbaglia ma, accecati dall'ideologia del "tutti a casa" preferiscono tacere sui suoi errori, altri ancora, i più, non hanno la voglia di andare ad approfondire, a capire, a verificare gli argomenti che affronta.
Attenzione, è proprio questa incapacità e questa mancanza di volontà dell'italiano medio che ha portato tanti politici ad approfittare della "distrazione" generale per curare i propri interessi, per sprecare i soldi pubblici, per arricchirsi alle spalle del popolo italiano. Ma ai mali della distrazione non si rimedia con altra distrazione.

Prendo, come esempio, lo slogan di Grillo sulla scuola pubblica: “alle scuole private è stato assegnato un miliardo e mezzo di euro. Lo Stato deve finanziare la scuola pubblica, non quella privata".

Intanto Grillo andrebbe corretto perchè  lo Stato finanzia le scuole private per circa 500 milioni di euro, e non un miliardo e mezzo. Già qui si dimostra che o Grillo non conosce le cifre, grave per chi si propone di governare un Paese, o le falsa volutamente, ancora peggio.

Se poi facessero due conti, lui e l'italiano medio, scoprirebbero che uno studente di una scuola privata costa alla collettività circa 500 euro all'anno mentre uno studente della scuola pubblica costa agli italiani circa 6.000 euro all'anno. 

Non si tratta di uno scontro ideologico quindi ma di semplice capacità di gestire la spesa pubblica: se, come vorrebbe Grillo, da domani le scuole private divenissero statali, le casse pubbliche si impoverirebbero improvvisamente di 5 miliardi e mezzo di euro all'anno. Molto più di quanto lo Stato incassa con l'IMU.

A meno che Grillo intendesse dire che chi oggi frequenta una scuola privata da domani, con il potere in mano ai cinquestellati, debba smettere di studiare.  

lunedì 4 marzo 2013

GRILLO, MA LA DEMOCRAZIA?


Il dibattito che Grillo ha sollevato sull’art. 67 della Costituzione, che riconosce la libertà dell’eletto senza vincoli di mandato, dimostra quanto abbiano ragione coloro che vedono nel movimento dei 5 Stelle un fenomeno lontano dalla democrazia.

L’eletto per Grillo è come un “lavoratore dipendente”, cioè  prende ordini dal partito al quale appartiene, pena le dimissioni o la “scomunica” del partito stesso.
I deputati e i senatori sono stati infatti più volte definiti come “licenziabili” se colpevoli di aver tradito il patto con gli elettori. 

Il discorso di Grillo viene da tanti condiviso, soprattutto da chi, almeno in un primo momento e superficialmente, non riflette sulla portata del ragionamento e sulle sue conseguenze.

Intanto diciamo che quanto contenuto nell’art. 67 della Costituzione non è una norma esclusiva italiana, ma è comune alla quasi totalità delle democrazie rappresentative. Deriva dal principio del libero mandato (ovvero del divieto di mandato imperativo), formulato da Edmund Burke già prima della Rivoluzione Francese ed ha una sua ragion d'essere asolutamente condivisibile.

La norma recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

Il primo capoverso  contiene il concetto di rappresentanza. Il parlamentare rappresenta la Nazione, l’intera Nazione, non una categoria particolare o una parte geografica, ma tutta la Nazione, intesa come il popolo nel suo insieme. Non posso essere il parlamentare solo di una parte d’Italia (del nord, del sud…) né posso essere il parlamentare di una sola categoria (degli insegnanti, degli anziani, delle donne…).

Proprio perchè l'interesse generale è predominante, chi viene eletto in Parlamento non deve risponde delle sue azioni a nessuno, neanche al proprio partito. Prima viene il "bene comune", poi quello del proprio partito o delle categoria professionale alla quale si appartiene o dell'associazione alla quale siamo iscritti...

L’esatto opposto di quel che chiedono i 5 Stelle, che invece vorrebbero sottoporre l’eletto non al giudizio degli elettori bensì al giudizio degli iscritti al movimento. Quindi, per loro, il movimento 5 Stelle viene prima dell'interesse dell'Italia e degli italiani.

I 5 Stelle dimenticano di essere democratici e vogliono eliminare gli eletti con decisioni interne al partito e così facendo derubano l’elettore dell’unico controllo che ha sull’eletto, ovvero il voto. 

Se l’eletto traditore (ma poi chi stabilisce se ha tradito? Grillo? Casaleggio?), non accetta di dimettersi, viene cacciato dal movimento, metodo che riporta alla memoria le purghe di Stalin.

I  problemi della nostra democrazia non si risolvono trasformando i deputati e i senatori in “cani al guinzaglio”.
Il divieto di mandato imperativo è principio essenziale per far sì che le Camere perseguano l’interesse generale della Nazione e non interessi privati. 

In questo senso, aggiungo, anche la legge elettorale “Calderoli” detta, non a caso, anche “porcellum”, con la formula delle liste bloccate e l’abolizione della preferenza, ha di fatto costituito un’elusione della norma del divieto di mandato imperativo. Tramite la minaccia delle non rielezione, le segreterie di partito, se contaminate dagli intenti lontani dall’interesse generale, controllano i parlamentari.

La lettere di dimissioni in bianco dei grillini e le parole di Grillo su questo argomento rafforzano ulteriormente il controllo del movimento nei confronti degli eletti, vanno cioè nella direzione sbagliata. 

Tutto il contrario dunque di quello che vorrebbero apparire: non solo non sono affatto una novità nel panorama politico italiano nè sono più democratici degli altri partiti ma, addirittura, aggravano i difetti del nostro sistema.


sabato 2 marzo 2013

LE VIRTU' DEL BUON POLITICO

Anticipando il probabile duello finale dei prossimi mesi, Grillo ha attaccato Renzi dandogli della «faccia come il c.» (in comproprietà con Bersani) e del «politico di professione». Per lui e per una parte dei suoi elettori le due definizioni sono sinonimi. Tralascio ogni giudizio sull’uso del turpiloquio, uno dei tanti lasciti di questo ventennio che ancora prima delle tasche ci ha immiserito i cuori, portandoci a considerare normale e persino simpatico che un leader politico si esprima come un energumeno. Ma vorrei sommessamente segnalare che essere professionisti della politica non è una vergogna né una colpa. E’ colpevole, e vergognoso, essere dei professionisti della politica ladri e incapaci.  
 
In questi ultimi decenni ne abbiamo avuti un’infinità e la stampa porta il merito ma anche la responsabilità di averli resi popolari, preferendo esibire i fenomeni acchiappa audience piuttosto che il lavoro serio ma noioso di tanti membri delle commissioni parlamentari.  
Dando agli elettori la percezione che tutti i politici fossero uguali a Fiorito o a Scilipoti e che chiunque potesse fare meglio di loro. Non è così. Il «chiunquismo» è una malattia anche peggiore del qualunquismo e porta le società all’autodistruzione. Questa idea che tutti possono fare politica, scrivere articoli di giornale, gestire un’azienda o allenare una squadra di calcio è una battuta da bar che purtroppo è uscita dai bar per invaderci la vita e devastarcela.  
 
A furia di vedere buffoni e mediocri nelle foto di gruppo della classe dirigente, ma soprattutto di vedere ovunque umiliata la meritocrazia a vantaggio della raccomandazione, siamo sprofondati in un’abulia che ci ha indotti ad accettare senza battere ciglio ogni sopruso e ogni abuso antidemocratico (a cominciare dai partiti padronali e da una oscura rockstar del capitalismo come presidente del Consiglio). E ora che ci siamo svegliati, per reazione vorremmo buttare tutto all’aria, convinti che per fare politica bastino un ideale e una fedina penale intonsa. Non è vero. Gli ideali e l’onestà sono la base per distinguere i buoni leader dai cialtroni che ci hanno ridotto in questo stato. Ma la politica è anche un mestiere con regole precise: l’attitudine all’ascolto, la conoscenza della materia trattata e delle procedure legislative, la capacità di giungere a una sintesi che in democrazia è quasi sempre un compromesso tra diversi egoismi, come ben sa chiunque abbia frequentato un’assemblea di condominio. Era così ai tempi di Pericle e delle lavagnette di creta. Lo rimarrà nell’era di Grillo e del web, con buona pace di chi pensa che la democrazia diretta possa abolire il filtro della rappresentanza. I rimpianti Cavour e De Gasperi non erano dilettanti o improvvisatori. Erano politici di professione, come lo è oggi un Obama. 
 
Il fatto che queste ovvietà suonino eretiche testimonia l’abisso di confusione in cui ci dibattiamo. La politica, se fatta bene, è una cosa dannatamente difficile e seria, specie in giorni come quelli che ci attendono, quando si tratterà di rimettere in piedi un Paese economicamente e moralmente allo stremo. Da cittadino di una democrazia malata sarei più sereno se a occuparsi dell’infermo fossero persone selezionate da un meccanismo che garantisse scelte autorevoli. E qui già vedo un ghigno profilarsi sul volto di Grillo: i partiti sono morti, incapaci di formare una classe dirigente. Ma allora bisogna immaginarne di nuovi, diversamente strutturati. Di certo il futuro non può essere affidato a miliardari e magistrati fai-da-te. Può anche darsi che la soluzione siano movimenti di persone perbene agglomerati dal web come i Cinque Stelle, ma dovranno risolvere l’intima contraddizione fra la trasparenza della base e l’oscurità della catena di comando. A cosa serve accendere una webcam in Parlamento se poi l’ufficio della Casaleggio & Associati, in cui si scrivono le regole e si decide la strategia, rimane ostinatamente al buio?

Massimo Gramellini
 - La Stampa 02/03/2013