venerdì 30 ottobre 2015

LA GIBUS E I MAL DI PANCIA DI RIFONDAZIONE COMUNISTA

Il consigliere comunale Roberto Daghini, pur facendo parte di una maggioranza al 99% fatta dal Pd, non perde occasione per cercare di mettersi in luce e per riportare agli antichi splendori la bandiera con Falce e Martello che, ormai, quasi più nessuno ama ricordare.

In questi giorni, anche se quasi nessun organo di informazione gli ha dato spazio, ha scritto per rammaricarsi per l'assenza delle forze politiche di minoranza del consiglio comunale di Serravalle in merito alla vicenda della Gibus, l'azienda di Casalguidi che rischia la chiusura, evento che sarebbe drammatico per i 32 lavoratori e per le loro famiglie.

Nello stesso articolo Daghini ringrazia anche il sindaco Patrizio Mungai che, da subito, si è attivato per aprire un confronto con azienda e sindacati.
La speranza è che l'intervento delle istituzioni, Comune e Regione, riesca a scongiurare la chiusura di una realtà economica importante per il territorio serravallino.

Ecco, se Daghini non avesse la fregola di intervenire continuamente al solo scopo di rimarcare una presenza, somigliando  sempre più all'ultimo giapponese (Hiroo Onoda rimase a combattere sulla minuscola isola di Lubang, nelle Filippine, fino al 1974 nonostante la guerra contro gli americani fosse terminata da quasi trent'anni), si renderebbe conto che l'intervento del Sindaco rappresenta tutto il consiglio comunale, maggioranza e minoranza, ed anzi addirittura tutti i cittadini di Serravalle.

Patrizio Mungai, nel suo ruolo istituzionale, non è un rappresentante del Pd o di Rifondazione Comunista ma è il portavoce di tutta la cittadinanza che, siamo sicuri, è concorde nella difesa dei lavoratori della Gibus.

Non vogliamo entrare nel merito delle critiche che Daghini solleva contro il Partito dei Lavoratori, che egli definisce "troskista" (Lev Trockij è morto nel 1940 assassinato dai suoi stessi compagni comunisti e questo la dice lunga sull'attualità del messaggio politico di Daghini) perchè ci sembrano veramente poca cosa rispetto all'importanza della battaglia per la difesa dei posti di lavoro.

A Bergamo dicono "l’avvocato vuole beghe, il dottore malattie il prete funerali": ecco Daghini cerca le beghe non perchè avvocato ma solo perchè deve far sventolare una bandiera rossa ormai sdrucita. Alle spalle dei lavoratori.


domenica 25 ottobre 2015

MISERICORDIA, NON CONDANNE. IL PAPA SUL SINODO



Riproponiamo il messaggio di Papa Francesco al termine del Sinodo sulla famiglia.


Ci piace sottolineare un passaggio che ci ha colpito molto: “Cari Confratelli, l’esperienza del Sinodo ci ha fatto anche capire meglio che i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito; non le idee ma l’uomo; non le formule ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono. Ciò non significa in alcun modo diminuire l’importanza delle formule, delle leggi e dei comandamenti divini, ma esaltare la grandezza del vero Dio, che non ci tratta secondo i nostri meriti e nemmeno secondo le nostre opere, ma unicamente secondo la generosità illimitata della sua Misericordia”.


Ognuno però sicuramente potrà trovare spunti interessanti nel testo di Papa Francesco.


Mentre seguivo i lavori del Sinodo, mi sono chiesto: che cosa significherà per la Chiesa concludere questo Sinodo dedicato alla famiglia? Certamente non significa aver concluso tutti i temi inerenti la famiglia, ma aver cercato di illuminarli con la luce del Vangelo, della tradizione e della storia bimillenaria della Chiesa, infondendo in essi la gioia della speranza senza cadere nella facile ripetizione di ciò che è indiscutibile o già detto.
Sicuramente non significa aver trovato soluzioni esaurienti a tutte le difficoltà e ai dubbi che sfidano e minacciano la famiglia, ma aver messo tali difficoltà e dubbi sotto la luce della Fede, averli esaminati attentamente, averli affrontati senza paura e senza nascondere la testa sotto la sabbia.
Significa aver sollecitato tutti a comprendere l’importanza dell’istituzione della famiglia e del Matrimonio tra uomo e donna, fondato sull’unità e sull’indissolubilità, e ad apprezzarla come base fondamentale della società e della vita umana.
Significa aver ascoltato e fatto ascoltare le voci delle famiglie e dei pastori della Chiesa che sono venuti a Roma portando sulle loro spalle i pesi e le speranze, le ricchezze e le sfide delle famiglie di ogni parte del mondo.
Significa aver dato prova della vivacità della Chiesa Cattolica, che non ha paura di scuotere le coscienze anestetizzate o di sporcarsi le mani discutendo animatamente e francamente sulla famiglia.
Significa aver cercato di guardare e di leggere la realtà, anzi le realtà, di oggi con gli occhi di Dio, per accendere e illuminare con la fiamma della fede i cuori degli uomini, in un momento storico di scoraggiamento e di crisi sociale, economica, morale e di prevalente negatività.
Significa aver testimoniato a tutti che il Vangelo rimane per la Chiesa la fonte viva di eterna novità, contro chi vuole “indottrinarlo” in pietre morte da scagliare contro gli altri.
Significa anche aver spogliato i cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite.
Significa aver affermato che la Chiesa è Chiesa dei poveri in spirito e dei peccatori in ricerca del perdono e non solo dei giusti e dei santi, anzi dei giusti e dei santi quando si sentono poveri e peccatori.
Significa aver cercato di aprire gli orizzonti per superare ogni ermeneutica cospirativa o chiusura di prospettive, per difendere e per diffondere la libertà dei figli di Dio, per trasmettere la bellezza della Novità cristiana, qualche volta coperta dalla ruggine di un linguaggio arcaico o semplicemente non comprensibile.
Nel cammino di questo Sinodo le opinioni diverse che si sono espresse liberamente – e purtroppo talvolta con metodi non del tutto benevoli – hanno certamente arricchito e animato il dialogo, offrendo un’immagine viva di una Chiesa che non usa “moduli preconfezionati”, ma che attinge dalla fonte inesauribile della sua fede acqua viva per dissetare i cuori inariditi.

E – aldilà delle questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – abbiamo visto anche che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo, per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione. In realtà, le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato. Il Sinodo del 1985, che celebrava il 20° anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, ha parlato dell’inculturazione come dell’«intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo, e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture umane». L’inculturazionenon indebolisce i valori veri, ma dimostra la loro vera forza e la loro autenticità, poiché essi si adattano senza mutarsi, anzi essi trasformano pacificamente e gradualmente le varie culture.
Abbiamo visto, anche attraverso la ricchezza della nostra diversità, che la sfida che abbiamo davanti è sempre la stessa: annunciare il Vangelo all’uomo di oggi, difendendo la famiglia da tutti gli attacchi ideologici e individualistici.

E, senza mai cadere nel pericolo del relativismo oppure di demonizzare gli altri, abbiamo cercato di abbracciare pienamente e coraggiosamente la bontà e la misericordia di Dio che supera i nostri calcoli umani e che non desidera altro che «TUTTI GLI UOMINI SIANO SALVATI» (1 Tm 2,4), per inserire e per vivere questo Sinodo nel contesto dell’Anno Straordinario della Misericordia che la Chiesa è chiamata a vivere.

Cari Confratelli, l’esperienza del Sinodo ci ha fatto anche capire meglio che i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito; non le idee ma l’uomo; non le formule ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono. Ciò non significa in alcun modo diminuire l’importanza delle formule, delle leggi e dei comandamenti divini, ma esaltare la grandezza del vero Dio, che non ci tratta secondo i nostri meriti e nemmeno secondo le nostre opere, ma unicamente secondo la generosità illimitata della sua Misericordia (cfr Rm 3,21-30; Sal 129; Lc 11,37-54). Significa superare le costanti tentazioni del fratello maggiore (cfr Lc 15,25-32) e degli operai gelosi (cfr Mt 20,1-16). Anzi significa valorizzare di più le leggi e i comandamenti creati per l’uomo e non viceversa (cfr Mc 2,27).

In questo senso il doveroso pentimento, le opere e gli sforzi umani assumono un significato più profondo, non come prezzo dell’inacquistabile Salvezza, compiuta da Cristo gratuitamente sulla Croce, ma come risposta a Colui che ci ha amato per primo e ci ha salvato a prezzo del suo sangue innocente, mentre eravamo ancora peccatori (cfr Rm 5,6).
Il primo dovere della Chiesa non è quello di distribuire condanne o anatemi, ma è quello di proclamare la misericordia di Dio, di chiamare alla conversione e di condurre tutti gli uomini alla salvezza del Signore (cfr Gv 12,44-50).
Il beato Paolo VI, con parole stupende, diceva: «Possiamo quindi pensare che ogni nostro peccato o fuga da Dio accende in Lui una fiamma di più intenso amore, un desiderio di riaverci e reinserirci nel suo piano di salvezza [...]. Dio, in Cristo, si rivela infinitamente buono [...]. Dio è buono. E non soltanto in sé stesso; Dio è – diciamolo piangendo – buono per noi. Egli ci ama, cerca, pensa, conosce, ispira ed aspetta: Egli sarà – se così può dirsi – felice il giorno in cui noi ci volgiamo indietro e diciamo: Signore, nella tua bontà, perdonami. Ecco, dunque, il nostro pentimento diventare la gioia di Dio».

Anche san Giovanni Paolo II affermava che «la Chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia […] e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore, di cui essa è depositaria e dispensatrice».
Anche Papa Benedetto XVI disse: «La misericordia è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio [...] Tutto ciò che la Chiesa dice e compie, manifesta la misericordia che Dio nutre per l’uomo. Quando la Chiesa deve richiamare una verità misconosciuta, o un bene tradito, lo fa sempre spinta dall’amore misericordioso, perché gli uomini abbiano vita e l’abbiano in abbondanza (cfr Gv 10,10)».
Sotto questa luce e grazie a questo tempo di grazia che la Chiesa ha vissuto, parlando e discutendo della famiglia, ci sentiamo arricchiti a vicenda; e tanti di noi hanno sperimentato l’azione dello Spirito Santo, che è il vero protagonista e artefice del Sinodo. Per tutti noi la parola “famiglia” non suona più come prima, al punto che in essa troviamo già il riassunto della sua vocazione e il significato di tutto il cammino sinodale.

In realtà, per la Chiesa concludere il Sinodo significa tornare a “camminare insieme” realmente per portare in ogni parte del mondo, in ogni Diocesi, in ogni comunità e in ogni situazione la luce del Vangelo, l’abbraccio della Chiesa e il sostegno della misericordia di Dio! 
Grazie!

mercoledì 21 ottobre 2015

MATRIMONI GAY: GLI ITALIANI DICONO NO

È la rivincita della famiglia tradizionale.

Il termometro di una società evoluta e secolarizzata, pronta a non vivere la religione in modo confessionale, ma altrettanto decisa a difendere alcuni valori storici del suo impianto. 

Il sondaggio IPR Marketing per Il Mattino ci consegna la mappa di un Paese dove, ancora una volta, sembra consumarsi il divorzio tra la politica e la società reale. 
E non su temi economici, come le tasse o la burocrazia, né su questioni legate alla nuova emergenza dell’immigrazione, ma sui connotati di fondo che riguardano gli stili di vita e innanzitutto i paradigmi di riferimento quando si parla di coppie etero e omosessuali, unite da un vincolo religioso o solo da un legame di civile convivenza.

Alt ai matrimoni gay. 
Il primo dato che sorprende è il giudizio nettamente contrario ai matrimoni omosessuali, con il 55 per cento degli italiani schierati sul fronte del no, contro il 38 per cento di favorevoli e il 7 per cento senza opinione.

Maggioranza che diventa il 67 per cento nel caso dei cattolici praticanti e un rotondo 42 per cento per i non cattolici. 
Il giudizio che si ricava è la scollatura tra il Paese reale e l'Italia rappresentata dai media: a leggere i giornali ed a guardare i programmi televisivi, sembrerebbe infatti che la stragrande maggioranza dei cittadini ormai non faccia più differenza tra il matrimonio eterosessuale e quello tra gay, così come avvenuto in altri Paesi.

Invece è vero esattamente il contrario, con una forte affermazione, direi perfino identitaria, della famiglia nella sua struttura tradizionale.

martedì 6 ottobre 2015

LETTERA APERTA AL MONSIGNORE POLACCO

Don Maurizio Patriciello, famoso per essere impegnato nella battaglia contro i rifiuti in Campania dove fa il parroco, è intervenuto dalla sua pagina di facebook sulla questione di Krzysztof Olaf Charamsa, il teologo e sacerdote che con il suo coming out ha conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Non un prete qualunque ma il segretario aggiunto della Commissione teologica internazionale vaticana e ufficiale della Congregazione per la dottrina della fede. 
Ecco il messaggio di Don Patriciello.


Nessuno ha il diritto di confondere il prossimo. Soprattutto quello meno preparato culturalmente, spiritualmente, psicologicamente. Un monsignore polacco – mio confratello – alla vigilia del sinodo sulla famiglia ha pensato che fosse giunto il tempo di rivelare al mondo di essere gay. Il momento, di certo, era il meno opportuno. La domanda sorge spontanea: perché non lo ha fatto prima? Intanto – come era prevedibile - la notizia “piccante” fa il giro delle redazioni, delle diocesi, del web. I commenti si sprecano. Non vogliamo entrare, per adesso, nel merito della questione.

Durante il sinodo sulla famiglia saranno affrontati temi delicati che vedono il mondo cattolico attento e preoccupato. Ma anche pieno di fede e di speranza. La Chiesa vuole essere madre per tutti. Non vuole che ci siano privilegiati. Non vuole escludere nessuno dalla misericordia di Dio. Gesù non è propietà privata. Papa Francesco su questo è stato chiarissimo.

Il vero problema è un altro. Questo confratello ha confessato di avere un “compagno”. Che cosa voglia davvero significare non lo so. Se – come è pensabile – vuol dire che ha un compagno con cui ha instaurato una relazione affettiva, sentimentale, sessuale si pongono alcune domande.
La Chiesa non l’abbiamo inventata noi. La Chiesa è la sposa che si pone in ascolto dello Sposo. Per conoscerlo, amarlo, servirlo. La Chiesa cammina con gli uomini del suo tempo, ai quale porta il gioioso annuncio che “Gesù è il Cristo”. Naturalmente ai suoi ministri la Chiesa chiede che accettino alcune regole. Su quelle che derivano dalla Parola di Dio non può transigere. Su altre si potrà anche discutere. Ecco il bisogno di stare insieme. Nessun credente è obbligato a consacrarsi. La vocazione è un dono. Durante gli anni della formazione, non una sola volta, i candidati al sacerdozio vengono invitati a ripensare e rivedere la scelta fatta. Nel giorno dell’ ordinazione a tutti viene chiesto se vogliono vivere in un certo modo. Il celibato che la Chiesa cattolica di rito latino richiede, noi preti, lo abbiamo accolto con gioia. Liberamente. Solennemente. Lo abbiamo scelto noi. Tutti abbiamo detto, ad alta voce e davanti a centinaia di persone, di voler vivere in castità. Ben sapendo che sarebbero venuti giorni in cui la castità - come del resto ogni stato di vita – sarebbe stata pesante. Tutto questo lo sapevamo. E proprio per questo non abbiamo mai smesso di pregare, sapendo che da soli possiamo fare poco.
Lo disse Gesù: «Senza di me non potete fare nulla...». Il che potrebbe significare: «Con me potete scalare le vette più alte a piedi scalzi... Potete solcare i mari...». Questo vale per tutti: coniugati, celibi, consacrati. Certo, tutti possono cadere in qualche tranello. Tutti, nella vita, possono inciampare. Tutti possono cambiare idea. Importante però è assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Senza farle ricadere sugli altri. Senza passare come vittime di un sistema atavico. Senza ingannare il prossimo.
Il “no” che il candidato al sacerdozio dice all’ esercizio della sessualità è il piedistallo dove si incastona il “ si” che ha detto a Cristo, alla Chiesa, ai fratelli. Questo discorso vale per tutti, non solo per i preti. Chi porta all’Altare la sua donna e le dice: «Io accolgo te come mia sposa e prometto di esserti fedele sempre...» sta rinunciando a tutte le donne del mondo. A meno che non voglia imbrogliare. Ma qui entriamo in un altro campo.
Il monsignore polacco non si è scoperto gay in questi giorni. Credo che già lo fosse al momento dell’ ordinazione. Non so come abbia fatto a rispodere alle domande del suo vescovo prima che gli imponesse le mani sul capo. Avrebbe potuto non accedere al sacerdozio cattolico che prevede per i preti lo stato di castità. Al di là di ogni altra considerazione teologica e morale, è una questione di serietà e di onestà. Per tutti vale l’ obbligo di mantenere la parola data. Un prete o un laico sposato che nascondono un’amante, sono semplicemente traditori. Se invece di un compagno, il monsignore polacco avesse avuta una compagna sarebbe stata la stessa cosa.
Sono contento che sia venuto allo scoperto. Ho rispetto per la sua vita privata. Ma lo spauracchio dell’omofobia che sta tentando di sventolare ai quattro venti non c’entra un bel niente. Insistere su questo vuol dire essere disonesti. Il Signore benedica tutti.